(Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità)
composta
dai signori:
Presidente
Prof.
Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Avv.
Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
ha
pronunciato la seguente
nei
giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4, settimo comma, della legge
30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica),
promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 26 gennaio 1993 dal Pretore
di Novara - sezione distaccata di Borgomanero nel procedimento civile vertente
tra … (OMISSIS) …ed altri e la U.S.L. n. 54 di Borgomanero, iscritta al n. 163
del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 15, prima serie speciale, dell’anno 1993;
2) n. 4 ordinanze emesse il 18 febbraio 1993 dal
Tribunale amministrativo regionale della Calabria sul ricorso proposto da …
(omissis) … contro la U.S.L. n. 5 di Crotone e sui ricorsi proposti da …
(omissis) … ed altri contro la U.S.L. n. 7 di Catanzaro, iscritte ai nn. 258,
440, 441 e 442 del registro ordinanze 1993 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica nn. 24 e 36, prima serie speciale, dell’anno 1993.
Visti
gli atti di costituzione di … (omissis) …e della U.S.L. n. 7 di Catanzaro,
nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 16 novembre 1993 il Giudice relatore Mauro Ferri;
uditi
gli avvocati Lorenzo Bertaggia e Armando Montarsolo per… (omissis).., Paolo
Vaiano e Antonio Funari per..(omissis).., Antonio Funari per… (omissis) …,
Raffaele Mirigliani per la U.S.L. n. 7 di Catanzaro e l’Avvocato dello Stato
Giuseppe O. Russo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
l. Il Tribunale amministrativo regionale della
Calabria, con ordinanza del 18 febbraio 1993 (r.o. n. 258/93), ha sollevato, in
riferimento agli artt.3, 4, 32, e 35 della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 4, settimo comma, della legge 30 dicembre
1991, n.412 “nella parte in cui stabilisce l’incompatibilità, per il personale
addetto al Servizio sanitario nazionale, allo svolgimento di attività
lavorativa presso strutture private convenzionate con lo stesso Servizio sanitario
nazionale”.
Nel
corso della fase cautelare di un giudizio promosso avverso un provvedimento
della U.S.L. competente, che aveva dichiarato l’esistenza di una situazione di
incompatibilità del ricorrente ai sensi della norma sopra indicata, il giudice remittente
- dopo aver accolto l’istanza di sospensione del provvedimento “fino alla
comunicazione della pronunzia della Corte costituzionale” - osserva che la
legittimità della norma impugnata deve essere valutata sotto un profilo di
logicità giustificati va, poiché non può ritenersi configurabile una
preclusione della libera espressione della personalità dell’individuo (in
particolare sotto l’aspetto del diritto al lavoro: artt. 4 e 35 della
Costituzione) che non trovi una idonea motivazione nell’intento di tutela di
altro interesse o valore di almeno equivalente rango costituzionale.
La
disciplina del rapporto di pubblico impiego può certamente prevedere, prosegue
il giudice a quo, limitazioni all’esercizio di attività che il legislatore ha
ritenuto contrastare con la posizione rivestita dal pubblico dipendente, e ciò
in ossequio all’art. 98, primo comma, della Costituzione, che fornisce quindi
la ratio giustificativa delle preclusioni legittimamente apponibili allo
svolgimento di rapporti suscettibili di inficiare il principio dell’”esclusivo
servizio della Nazione” che caratterizza il rapporto di pubblico impiego.
Ciò
posto, mentre quanto all’unicità del rapporto di lavoro con il Servizio
sanitario nazionale il remittente rileva come non possano nutrirsi riserve di
carattere logico-giuridico, consistente é invece il dubbio che la rigidità di
tale assunto possa trovare legittima specificazione in relazione ad “altri
rapporti anche di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale”.
Un
primo rilievo di carattere sistematico riguarda la direzione soggettiva di un
siffatto divieto. Infatti, laddove i rapporti convenzionali vengano
intrattenuti con strutture private, la preclusione viene a colpire
indirettamente - con un inammissibile ampliamento delle ipotesi di
incompatibilità - i singoli prestatori di lavoro, i quali non sono
necessariamente essi stessi titolari di tali rapporti, bensì parti di un
rapporto di lavoro dipendente con altro soggetto privato, il quale so lo é il
reale titolare del rapporto convenzionale con il Servizio sanitario nazionale.
Tali considerazioni trovano, prosegue il remittente, un immediato punto di
riferimento nell’ulteriore principio, individuato dalla norma in esame, del
possibile “conflitto di interessi” che le attività ritenute incompatibili
appaiono idonee a suscitare con le attribuzioni del servizio pubblico,
conflitto di interessi che - secondo l’interpretazione fornita da una circolare
del Ministro della sanità del 24 novembre 1992 - può anche essere meramente
potenziale.
Non
può poi non osservarsi che il suddetto principio del conflitto di interessi
appare abbandonato dalla sopravvenuta norma di cui all’art. 4, comma decimo,
del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, secondo cui all’interno dei
presidi ospedalieri devono essere riservati spazi adeguati per l’esercizio
della libera professione intramuraria.
Un
ulteriore profilo di illegittimità costituzionale si pone in riferimento
all’art. 3 della Costituzione, in quanto per effetto della norma impugnata
vengono ad essere penalizzati i soli sanitari le cui prestazioni di lavoro si
svolgano presso private istituzioni aventi regime di convenzionamento, mentre
le altre esplicazioni professionali, ancorché erogate in favore di soggetto
parimenti privato, trovano elementi limitativi nella sola coincidenza temporale
con l’attività svolta nell’ambito delle strutture pubbliche.
Infine,
il giudice a quo denuncia anche la violazione dell’art. 32 della Costituzione,
sia sotto il profilo della tutela della salute del singolo cittadino (che ha
diritto al trattamento sanitario presso strutture sia pubbliche che private,
senza che siano apposti limiti all’attività dei sanitari), sia sotto quello
dell’interesse della collettività al bene salute, che la valorizzazione della
professionalità e delle esperienze appare in grado di concorrere a conseguire
al di fuori di modelli di prioritaria preminenza dell’assistenza pubblica.
l.2. Si é costituito nel presente giudizio il
ricorrente nel giudizio a quo… (omissis)…, il quale svolge argomentazioni
adesive all’ordinanza di rimessione, in particolare sotto il profilo della
violazione del principio di ragionevolezza.
l.3. É intervenuto in giudizio il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale
dello Stato, il quale ha concluso per l’infondatezza delle questioni.
Premesso che l’incompatibilità tra il rapporto di lavoro con il
Servizio sanitario nazionale e lo svolgimento di attività professionale per
conto di presidi privati convenzionati non scaturisce da un’interpretazione
estensiva del secondo e del terzo periodo del comma settimo dell’impugnato art.
4, ma é esplicitamente dichiarata dal legislatore nell’ottavo periodo del
medesimo comma, il Presidente del Consiglio osserva, quanto alla denunciata violazione
dell’art. 3 della Costituzione, che il divieto di cui trattasi trova ampia e
logica giustificazione nella valutazione del legislatore di salvaguardare il
perseguimento del superiore interesse dall’indubbio conflitto che deriverebbe
dallo svolgimento contemporaneo di altra attività per conto di struttura
privata: questa, infatti, in quanto convenzionata con il Servizio sanitario
nazionale, deve svolgere verso il medesimo una funzione integrativa in caso di
insufficienza della struttura pubblica e non porsi in posizione di
contrapposizione o conflitto con essa, conflitto che fatalmente insorgerebbe
laddove il professionista operasse contemporaneamente per le due strutture, per
l’evidente interesse economico (sia della struttura sia dell’operatore) a
dirottare verso il privato il massimo della domanda di prestazioni.
Per quanto riguarda l’asserita violazione degli artt. 4 e 35 della
Costituzione, l’Avvocatura dello Stato osserva che lo stesso remittente
giustifica l’esistenza nell’ordinamento di norme che vietano ai pubblici
dipendenti lo svolgimento di determinate attività a cagione della esclusività
del servizio che essi devono rendere alla Nazione.
Circa, infine, il riferimento all’art. 32 della Costituzione, si rileva
che non risulta chiaro come la norma impugnata possa incidere negativamente sul
sistema organizzativo delineato nella legge n. 833 del 1978.
2.l.
Con altre tre ordinanze fra loro identiche emesse il 18 febbraio 1993 (r.o. nn.
440, 441 e 442 del 1993), il TAR della Calabria ha nuovamente sollevato
questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, settimo comma, della legge
n. 412 del 1991, in riferimento agli artt. 3, 32 e 35 della Costituzione. Il
remittente svolge argomentazioni analoghe a quelle di cui all’ordinanza sopra
esaminata sub l.l., aggiungendo, quanto al riferimento all’art. 32 della
Costituzione, che questa Corte deve valutare se il legislatore, nel dettare la
norma impugnata, abbia operato un razionale bilanciamento degli interessi in
gioco, nonché una ragionevole gradualità di attuazione del diritto alla salute,
dipendente dalla obiettiva considerazione delle risorse organizzative e
finanziarie a disposizione (sent. n. 455 del 1990).
2.2. Si sono costituiti… (omissis) …, ricorrenti nei giudizi di cui
alle ordinanze nn. 440 e 442 del 1993, insistendo per l’accoglimento della
questione e richiamando l’art. 6 del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187, ai
sensi del quale le incompatibilità di cui alla norma impugnata non si applicano
ai medici che svolgono attività nell’ambito degli istituti penitenziari.
2.3. Si é altresì costituita in tutti i giudizi
la Unità sanitaria locale n. 7 della Regione Calabria, parte resistente nei
giudizi a quibus, concludendo per l’infondatezza delle questioni.
Con atti di identico contenuto, la difesa della parte privata osserva
in sintesi che non esiste alcuna violazione dell’art. 3 della Costituzione, in
quanto le strutture private convenzionate presentano una serie di rilevanti
attribuzioni di carattere pubblicistico (com’é dimostrato anche dagli artt.25,
26, 33 e 36 della legge n. 833/78) che giustificano una diversa disciplina
rispetto alle strutture private semplici; né degli artt.4 e 35 della
Costituzione, in quanto la limitazione di cui alla norma impugnata risponde
all’esigenza di assi curare un’efficiente organizzazione sanitaria evitando il
sorgere di conflitti; né, infine, dell’art. 32 della Costituzione, poiché, come
già detto, la norma tende proprio ad una migliore organizzazione del sistema
sanitario.
2.4. É intervenuto in tutti i giudizi il
Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha concluso per l’infondatezza
delle questioni, svolgendo argomentazioni identiche a quelle contenute
nell’atto di intervento relativo al giudizio introdotto con l’ordinanza n.
258/93 (v. sopra, al punto l.3.).
3.l. Il Pretore di Novara - sezione distaccata di Borgomanero - con
ordinanza del 26 gennaio 1993 (r.o.163/93) ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 4, comma settimo, della legge 30 dicembre
1991, n. 412:
a) in riferimento all’art. 3 della Costituzione,
nella parte in cui la norma, “mentre accorda la garanzia del passaggio anche in
soprannumero al rapporto di lavoro a tempo pieno al personale medico a tempo
definito in servizio alla data di entrata in vigore della legge che intenda far
cessare in questo modo la situazione di incompatibilità del doppio rapporto di
lavoro con il Servizio sanitario nazionale, non appresta alcuna corrispondente
garanzia al personale medico che, provenendo dalla identica situazione di fatto,
intenda optare invece per la conservazione del solo rapporto convenzionale”;
b) in riferimento agli artt. 4 e 35 della
Costituzione, nella parte in cui la norma medesima, “prevedendo la garanzia del
passaggio anche in soprannumero al rapporto di lavoro a tempo pieno e quindi
garantendo una sostanziale intangibilità dello status giuridico- economico già
maturato dal medico che opti per questa modalità di cessazione
dell’incompatibilità stabilità dalla legge, e - per converso - trascurando ogni
analoga garanzia per il medico che intenda optare per la conservazione del solo
rapporto convenzionale con il Servizio sanitario nazionale, provocando in tal
modo una marcata e repentina regressione nel trattamento retributivo
complessivo, condiziona gravemente, fino ad annullarla nei fatti, la libera
scelta formalmente accordata ai medici che abbiano con il Servizio sia un
rapporto di lavoro a tempo definito che un rapporto basato su convenzione”.
Il
giudice a quo premette che i ricorrenti - medici titolari nei confronti del
Servizio sanitario nazionale di un rapporto di lavoro a tempo definito e,
contemporaneamente, di un rapporto in regime convenzionale - hanno proposto
ricorso ex art. 414 del codice di procedura civile al Pretore in funzione di
giudice del lavoro, chiedendo la condanna della u.s.l. competente al pagamento
di somme di danaro ritenute di loro spettanza e l’accertamento della
illegittimità costituzionale dell’art. 4, settimo comma, della legge n.412 del
1991; contestualmente, hanno introdotto procedura d’urgenza ex art.700 del
codice medesimo, chiedendo la sospensione del termine del 31 dicembre 1992
stabilito dalla norma citata.
Successivamente,
i ricorrenti hanno chiesto al Pretore la disapplicazione della sopravvenuta
deliberazione della U.S.L. con la quale si disponeva che, in caso di mancata
opzione entro il 31 dicembre 1992 per uno dei due rapporti di lavoro, si
sarebbe provveduto a confermare il rapporto di dipendenza e a risolvere quello
convenzionale.
Ciò
posto, il giudice remittente, in punto di non manifesta infondatezza, osserva
quanto segue.
Nel
disporre che “con il Servizio sanitario nazionale può intercorrere un unico
rapporto di lavoro”, la norma in esame impone ai medici che abbiano più di un
rapporto, anche di natura convenzionale, con il Servizio sanitario di far
cessare tale situazione (definita di “incompatibilità”) entro il 31 dicembre
1992.
In
particolare i medici che abbiano con il Servizio sia un rapporto di dipendenza
a tempo definito ex art. 47 della legge 833/1978 che, contestualmente, un
rapporto convenzionale ex art. 48 della stessa legge, entro il 31 dicembre 1992
devo no optare o per il primo oppure per il secondo di essi.
Senonché,
lo status giuridico-economico del medico che esprima l’opzione in favore del
rapporto di dipendenza appare molto diverso, e migliore, rispetto a quello del
professionista che invece intenda optare per il rapporto convenzionale.
Infatti,
il medico che esprime l’opzione in favore del rapporto di dipendenza gode della
garanzia accordata dallo stesso art. 4, comma settimo, della legge 412/91,
secondo cui: “A decorrere dal primo gennaio 1993, al personale medico con
rapporto di lavoro a tempo definito, in servizio alla data di entrata in vigore
della presente legge, é garantito il passaggio, a domanda, anche in
soprannumero, al rapporto di lavoro a tempo pieno”.
Questa
garanzia comporta inevitabilmente dei riflessi sul piano del trattamento
economico.
Comparando,
sotto quest’ultimo aspetto, la situazione del medico titolare del rapporto di
dipendenza a tempo definito, nonché del rapporto convenzionale con un massimo
di cinquecento assistiti, con la situazione del medico titolare soltanto del
rapporto di dipendenza a tempo pieno, non si riscontrano delle differenze
retributive di spessore tanto marcato da poter essere ritenuto rilevante ai
fini qui in esame.
Se
questo é lo status di cui godrebbe il medico che scelga il rapporto di
dipendenza a tempo pieno, molto diversa, e ben deteriore, é la condizione del
professionista che intenda, invece, esprimere l’opzione in favore del solo
rapporto di medico convenzionato.
Questi
subirebbe un’immediata decurtazione di più del cinquanta per cento del
trattamento retributivo complessivo fino ad oggi ricevuto, di talché l’invito
fatto dal legislatore alla scelta tra due opportunità appare in realtà una
sorta di “costrizione” di fatto a transitare dai rapporti a tempo definito e
convenzionale al rapporto a tempo pieno.
Tutto
questo é conseguenza del fatto che, mentre si assicura al medico il “passaggio
anche in soprannumero al rapporto di lavoro a tempo pieno”, la legge non
esprime alcuna garanzia di mantenimento del rapporto convenzionale, e ancor
meno assicura - a chi opti per il mantenimento del solo rapporto convenzionale
- l’attribuzione di un numero di assistiti tale da compensare quel notevole
minor introito retributivo, che sarebbe sicura conseguenza della cessazione del
rapporto dipendente a tempo definito.
A
parte ogni altra considerazione sotto i profili previdenziali, ritiene pertanto
il remittente che l’aspetto strettamente economico della nuova situazione nella
quale repentinamente i ricorrenti si troverebbero conduce da solo a rimettere
la questione alla Corte costituzionale, posto che l’unico accenno a possibili
variazioni del quadro retributivo appena evidenziato si rinviene in termini
generici nell’ultima parte dell’art.4, comma settimo, della legge 412/91,
laddove il testo reca: “In sede di definizione degli accordi convenzionali di
cui all’art. 48 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, é definito il campo di
applicazione del principio di unicità del rapporto di lavoro a valere tra i
diversi accordi convenzionali”.
In
sostanza, viene rinviata alla contrattazione collettiva la definizione del
nuovo rapporto convenzionale, ma la legge non impone che tale definizione
avvenga entro il 31 dicembre 1992, né stabilisce un collegamento temporale tra
l’avvenuta contrattazione collettiva e la scadenza del termine per effettuare
la scelta: la legge, quindi, non rende possibile alcuna valutazione sugli
effetti concreti che conseguirebbero all’opzione espressa in favore del
rapporto convenzionale.
Dopo
aver risolto in senso positivo il problema della possibilità di adottare, nella
fattispecie, il richiesto provvedimento di urgenza, ed aver osservato che la
rilevanza della questione di costituzionalità appare evidente sia con
riferimento alla procedura d’urgenza, sia al già pendente giudizio di merito,
la cui competenza funzionale appartiene allo stesso giudice, il remittente
solleva la anzidetta questione di costituzionalità contestualmente adottando il
provvedimento cautelare, e previa sospensione del giudizio di merito.
3.2. Si é costituito dinanzi a questa Corte ..
(omissis)… , ricorrente nel giudizio a quo.
La parte privata sottolinea, in particolare, che la norma in esame
viola la parità di trattamento complessivo giuridico ed economico che era
sempre esistita tra medici a tempo pieno da un lato e medici a tempo definito
con rapporto convenzionato dall’altro; se si opta per il solo rapporto
convenzionato, infatti, si verifica un marcato peggioramento del trattamento
retributivo e previdenziale con perdita anche del punteggio acquisito per i
pubblici concorsi. Risulta, pertanto, evidente che la scelta in favore del
passaggio al rapporto a tempo pieno diventi in realtà coattiva, in violazione,
oltre che dell’art. 3, anche degli artt. 4 e 35 della Costituzione.
3.3. É intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il
quale conclude per l’infondatezza della questione, osservando che la situazione
del medico che diventa dipendente a tempo pieno della U.S.L. é del tutto
diversa da quella del medico che abbandona il rapporto di pubblico impiego per
assumere la veste di medico convenzionato e quindi autonomo.
4.
Hanno depositato
identiche memorie … (omissis) …(r.o. nn. 258, 440, e 442/93), i quali, oltre a
ribadire le argomentazioni svolte negli atti di costituzione, richiamano in
particolare la sentenza di questa Corte n. 355 del 1993, la quale ha
riconosciuto la legittimità costituzionale dell’art. 4, decimo comma, del
decreto legislativo n.502/92, che ha fatto obbligo alle strutture pubbliche di
garantire l’esercizio della libera professione intramuraria.
5. Ha altresì depositato memoria il Presidente
del Consiglio dei Ministri in ordine al giudizio introdotto con l’ordinanza del
Pretore di Novara (r.o.163/93).
L’Avvocatura dello Stato eccepisce innanzitutto l’inammissibilità della
questione: in primo luogo in quanto il giudizio a quo avrebbe come esclusivo
oggetto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, settimo comma,
della legge n. 412/91, anche perché la successiva richiesta di disapplicazione
della deliberazione della U.S.L. costituirebbe domanda nuova, come tale
inammissibile ex art. 420 c.p.c.; in secondo luogo, in quanto il remittente ha
ormai pronunciato il provvedimento ex art. 700 c.p.c. e quindi non é più
legittimato a sollevare questioni di costituzionalità attinenti al merito della
causa.
Nel merito, l’Avvocatura insiste per l’infondatezza della questione.
Si osserva che la norma impugnata persegue il fine evidente di evitare,
da un lato, che uno stesso soggetto possa instaurare, con lo stesso datore di
lavoro e sotto forme diverse, una pluralità di rapporti di lavoro, con
dispendio di risorse economiche e diminuzione di posti di lavoro, e,
dall’altro, che tra l’una e l’altra parte del rapporto pubblico insorga un
conflitto di interessi.
Inoltre, le situazioni cui l’opzione potrà dar luogo sono totalmente
diverse tra loro, non solo per le forme riguardanti il sorgere, l’esplicarsi e
l’estinguersi dei rapporti, ma anche per il contenuto degli stessi, per cui
solo ex post potrà affermarsi se la scelta operata é stata, sotto i vari
profili, la più opportuna.
l.l.
Il Tribunale amministrativo regionale della Calabria, con quattro ordinanze di
contenuto sostanzialmente identico, solleva questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4, settimo comma, della legge 30 dicembre 1991, n.
412, nella parte in cui stabilisce, per i medici dipendenti del Servizio
sanitario nazionale, l’incompatibilità col rapporto d’impiego dell’esercizio
dell’attività libero- professionale presso strutture private convenzionate con
il Servizio medesimo.
Ad
avviso dei remittenti, la norma viola in primo luogo gli artt. 4 e 35 della
Costituzione, in quanto pone una preclusione alla libera espressione della
personalità dell’individuo - sotto il profilo dell’attività lavorativa -,
preclusione che non trova adeguata ratio giustificativa nell’intento di tutela
di altro interesse o valore di pari rango costituzionale. Premesso che non
possono nutrirsi riserve di carattere logico-giuridico in ordine al principio
di unicità del rapporto di lavoro con il Servizio sanitario (anche in relazione
all’art.98, primo comma, della Costituzione), si osserva che appare invece di
dubbia legittimità l’estensione di tale principio alle situazioni dianzi
indicate, tenuto conto del rilievo che il divieto in esame viene a colpire
indirettamente i singoli prestatori di lavoro, i quali non sono essi stessi
titolari del rapporto convenzionale, rispetto al quale si trovano in posizione
di terzietà.
Sarebbe
altresì violato l’art. 3 della Costituzione, poiché la norma impugnata
discrimina irrazionalmente i soli sanitari che svolgono prestazioni presso
istituzioni private aventi regime di convenzionamento, mentre le altre
esplicazioni professionali, ancorché erogate in favore di soggetto parimenti
privato, non subiscono limitazioni, salvo quella generale della coincidenza
temporale con l’attività svolta nell’ambito delle strutture pubbliche.
Infine,
risulterebbe violato l’art. 32 della Costituzione, in quanto la norma in esame
lede sia il diritto alla salute del singolo cittadino (il quale deve potersi
rivolgere indifferentemente a strutture pubbliche o private, senza che siano
posti limiti all’attività dei medici), sia l’interesse della collettività al
bene della salute, poiché si limita la valorizzazione e la crescita della
professionalità e delle esperienze lavorative degli operatori sanitari.
l.2.
Con ordinanza del 26 gennaio 1993, il Pretore di Novara - sezione distaccata di
Borgomanero - solleva anch’esso questione di legittimità costituzionale
dell’art. 4, settimo comma, della legge n. 412 del 1991, in riferimento agli
artt. 3, 4 e 35 della Costituzione.
Il
giudice a quo non censura di per sé il regime di incompatibilità stabilito
dalla norma anzidetta, bensì la disciplina relativa alle modalità di cessazione
delle posizioni di incompatibilità, in base alla quale i medici titolari di un
rapporto di lavoro dipendente a tempo definito e contemporaneamente di un
rapporto di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale dovevano
far cessare tale situazione - optando per l’uno o per l’altro rapporto - entro
il 31 dicembre 1992.
Premesso
che il medico che opta in favore del rapporto di dipendenza gode della garanzia
del passaggio, a domanda, anche in soprannumero al rapporto di lavoro a tempo
pieno con sostanziale intangibilità dello status giuridico ed economico già
maturato, la disciplina impugnata viola, ad avviso del remittente, i menzionati
parametri costituzionali, in quanto non appresta in favore del medico che
(provenendo dalla identica situazione di fatto) opti per il solo rapporto
convenzionale alcuna corrispondente garanzia, né in ordine al mantenimento del
rapporto convenzionale, né soprattutto all’attribuzione di un numero di
assistiti tale da compensare la marcata e repentina regressione nel trattamento
retributivo conseguente a tale scelta: la definizione del nuovo rapporto
convenzionale viene, infatti, rinviata alla contrattazione collettiva, ma la
legge non stabilisce alcun collegamento temporale tra tale contrattazione e la
scadenza del termine per effettuare l’opzione. Ne consegue, in definitiva -
conclude il remittente - che la norma de qua condiziona gravemente, fino ad
annullarla, la libera scelta formalmente accordata ai medici, che si vedono di
fatto costretti a transitare al rapporto a tempo pieno.
l.3. I giudizi, concernendo questioni
identiche o strettamente connesse, vanno riuniti e decisi con unica sentenza.
2.l.
La questione sollevata dal TAR della Calabria non é fondata.
L’art.
4, settimo comma, della legge n. 412 del 1991 stabilisce, all’inizio, che “con
il Servizio sanitario nazionale può intercorrere un unico rapporto di lavoro.
Tale
rapporto é incompatibile con ogni altro rapporto di lavoro dipendente, pubblico
o privato, e con altri rapporti anche di natura convenzionale con il Servizio
sanitario nazionale”; prevede poi (all’ottavo periodo) che “l’esercizio
dell’attività libero-professionale dei medici dipendenti del Servizio sanitario
nazionale é compatibile col rapporto unico d’impiego, purché espletato fuori
dall’orario di lavoro all’interno delle strutture sanitarie o all’esterno delle
stesse, con esclusione di strutture private convenzionate con il Servizio
sanitario nazionale”.
La
norma sancisce, innanzitutto, il principio generale della unicità del rapporto
di lavoro con il Servizio sanitario nazionale: tale principio era già contenuto
in un disegno di legge di riforma del Servizio medesimo all’esame del
Parlamento in quello stesso periodo e si ritenne di anticiparlo - inserendolo
nella legge n. 412 (legge finanziaria per il 1992) - in quanto considerato,
come emerge dai lavori preparatori, particolarmente qualificante e
significativo. Dal principio di unicità (che i remittenti, come s’é detto, non
contestano minimamente) deriva l’incompatibilità non solo con altri rapporti di
lavoro dipendente (pubblico o privato), ma anche con ogni altro rapporto con il
Servizio sanitario, anche di natura convenzionale.
Per
quanto concerne, poi, più specificamente, il personale medico dipendente, la
norma in esame conferma, in linea di principio, la facoltà dell’esercizio
dell’attività libero-professionale - pur subordinandola ad una serie di
condizioni di tempo e di luogo -, ma la esclude in linea assoluta con
riferimento a strutture private convenzionate con il Servizio sanitario.
Al
riguardo appare evidente come il legislatore abbia inteso attribuire al suddetto
principio di unicità del rapporto di lavoro la più ampia accezione,
estendendolo fino a ricomprendervi anche i casi in cui il rapporto stesso
potesse, a suo giudizio, ugualmente configurarsi, sia pure in maniera
indiretta.
2.2.
Ciò posto, tale scelta del legislatore non può ritenersi viziata da
irragionevolezza, ove si considerino la particolare natura e le funzioni svolte
dalle istituzioni sanitarie private convenzionate.
Queste
ultime, invero, a seguito della stipula delle convenzioni vengono ad assumere
indubbiamente una funzione integrativa e sussidiaria della rete sanitaria
pubblica (cfr., in tal senso, sent. n. 173 del 1987), come emerge da numerose
disposizioni della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (cfr. artt.25, 33, 36), e,
soprattutto, dall’art. 43 della legge medesima, ai sensi del quale le
istituzioni in esame possono ottenere dalle regioni che i loro ospedali siano
considerati, ai fini dell’erogazione dell’assistenza sanitaria, presidi delle
unità sanitarie locali.
Le
indicate peculiari caratteristiche delle istituzioni convenzionate, che valgono
certamente a differenziarle da quelle non convenzionate, appaiono sufficienti a
far ritenere che la norma impugnata costituisca frutto di una non irragionevole
valutazione discrezionale di politica sanitaria. Con essa si é inteso garantire
la massima efficienza e funzionalità operativa al servizio sanitario pubblico,
sulle quali il legislatore ha ritenuto (anche, evidentemente, in base a dati di
esperienza) che potesse spiegare effetti negativi il contemporaneo esercizio da
parte del medico dipendente di attività professionale presso strutture
convenzionate, con conseguente pericolo di incrinamento della funzione
ausiliaria che esse sono chiamate a svolgere; e ciò si é voluto evitare in via
generale ed astratta, con apprezzamento anch’esso insindacabile in questa sede.
2.3. Sulla base delle considerazioni svolte,
tutte le censure prospettate dai remittenti vengono a cadere.
Una volta accertato, infatti, che la scelta operata dal legislatore non
può ritenersi irrazionale ed anzi appare ispirata dall’intento di assicurare la
maggior possibile efficienza dell’organizzazione sanitaria pubblica in
attuazione del principio sancito dall’art. 32 della Costituzione, é evidente
come non sussista la violazione di alcuno dei parametri invocati: non degli
artt. 4 e 35 della Costituzione, in quanto la denunciata limitazione
all’esercizio della libera professione - che, del resto, concerne solo uno dei
possibili modi dell’esercizio medesimo - é posta a tutela di altri interessi ed
esigenze fatti oggetto di tutela costituzionale (cfr. sentt. nn. 103 del 1977,
175 del 1982, 109 del 1983); non dell’art. 3 della Costituzione, data la
evidente accertata diversità delle situazioni poste a raffronto; non, infine,
dell’art. 32 della Costituzione, essendo la disciplina censurata volta proprio,
come s’é visto, a dare attuazione al principio contenuto in detto precetto.
3.l. Passando alla questione sollevata dal Pretore di Novara, vanno in
primo luogo esaminate le eccezioni di inammissibilità proposte dall’Avvocatura
dello Stato nella memoria illustrativa.
La questione sarebbe inammissibile in primo luogo perché la rilevanza
della medesima si fonderebbe su una domanda da qualificarsi “nuova”, come tale
inammissibile ai sensi delle norme che disciplinano il processo del lavoro.
L’eccezione deve essere respinta, in quanto essa attiene strettamente
al giudizio a quo e soltanto in quella sede é pertanto opponibile (cfr. sent.n.
97 del 1991).
Ulteriore motivo di inammissibilità della questione deriverebbe, ad
avviso dell’Avvocatura, dal fatto che il remittente ha sollevato la questione
in sede cautelare, dopo aver pronunciato il provvedimento ex art. 700 c.p.c., e
quando non era ancora legittimato a sollevare questioni attinenti al merito
della causa.
Anche tale eccezione non può essere accolta, considerata la
particolarità del caso di specie.
É ben vero, infatti, che, secondo la costante giurisprudenza di questa
Corte (che va qui ribadita: cfr.ad es. ord. n. 286 del 1983, sentt. nn. 186 del
1976, 579 del 1989, 444 e 498 del 1990), l’emanazione del provvedimento
d’urgenza, determinando - di regola - la conclusione della fase cautelare, da
un lato esaurisce ogni potestà del giudice in quella sede, e, dall’altro,
comporta che ogni ulteriore potere decisionale competa al giudice della
successiva fase di merito. Ma va osservato che nella fattispecie in esame il
giudizio di merito era già pendente ed assegnato al medesimo giudice: tanto
basta per escludere che sussistano gli estremi per una dichiarazione di
inammissibilità della questione.
3.2. Nel merito la questione non é fondata.
Si é già avuto modo di osservare come il legislatore, nel dettare la
normativa in esame, abbia sancito con rigore il principio di unicità del
rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale, avendolo ritenuto
particolarmente valido al fine di soddisfare l’esigenza, costituzionalmente
protetta, di restituire massima efficienza ed operatività alla rete sanitaria
pubblica. Va ora aggiunto che appare altresì conforme alla detta finalità
l’aver voluto incentivare la scelta per il rapporto di lavoro dipendente,
assicurando in tal caso, a semplice domanda, il passaggio dal “tempo definito”
al “tempo pieno” anche in soprannumero.
Ciò posto, il fatto che la norma impugnata non preveda, invece, per il
medico che opti per la conservazione del rapporto di natura convenzionale,
specifiche garanzie, in particolare in ordine al mantenimento di un trattamento
retributivo sostanzialmente corrispondente a quello percepito in costanza del
doppio rapporto (rinviando alla disciplina prevista nei futuri accordi
convenzionali), non determina la violazione di alcuno dei parametri
costituzionali invocati: basta considerare al riguardo, in aggiunta a quanto
già sopra rilevato, che la situazione in cui il medico si verrà a trovare é
comunque frutto di una sua libera scelta, che tale resta, ovviamente, pur in
presenza di elementi di diversità tra le due alternative, naturalmente
collegati alle differenti caratteristiche sostanziali dei due tipi di rapporto
con il Servizio sanitario nazionale.
Né a diversa conclusione può condurre il fatto che alla scadenza del
termine per esercitare l’opzione non fossero ancora intervenuti i nuovi accordi
convenzionali ex art. 48 della legge n. 833 del 1978: anche se sarebbe stato
auspicabile che ciò fosse avvenuto al fine di fornire ai soggetti interessati
il quadro normativo dettagliato della materia, non può tuttavia certamente
ritenersi che detta circostanza abbia comportato una coartazione della scelta e
tanto meno, di per sé, una violazione degli artt. 4 e 35 della Costituzione.
LA
CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi,
a) dichiara non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 4, settimo comma, della legge 30 dicembre
1991, n.412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica), sollevata, in
riferimento agli artt. 3, 4, 32 e 35 della Costituzione, dal Tribunale
amministrativo regionale della Calabria con le ordinanze in epigrafe;
b) dichiara non fondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 4, settimo comma, della legge 30 dicembre 1991, n.
412, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4 e 35 della Costituzione, dal
Pretore di Novara, sezione distaccata di Borgomanero, con l’ordinanza in
epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 15/12/93.
Francesco
Paolo CASAVOLA, Presidente
Mauro
FERRI, Redattore
Depositata
in cancelleria il 23/12/93.